
Fatture gonfiate e lavoro nero:nei guai società sartorialedi marchi "made in Italy"

“Regista” di tutta l'operazione illecita era proprio la società sartoriale che aveva il controllo su due ditte cinesi, costringendole in un uno vorticoso scambio, in parte vero ed in parte fasullo, di documenti e fatture
Una società sartoriale, rivenditrice per alcune importanti case di moda italiane, è rimasta coinvolta in un consistente giro di evasione fiscale posto in essere grazie allo sfruttamento di due società cinesi, aventi sede a Fabro, e già sottoposte a verifica dai militari della Guardia di finanza di Orvieto nell'ambito dell'operazione Fabro Fibra lo scorso mese didicembre. Con la conclusione di questo ulteriore accertamento le Fiamme gialle di piazza Marconi hanno così accertato che “regista” di tutta l'operazione illecita era proprio la società sartoriale italiana, la quale aveva il controllo, di fatto, sulle due ditte cinesi, costringendole in un uno vorticoso scambio, in parte vero ed in parte fasullo, di documenti e fatture frutto di innumerevoli rapporti economici legati alla compravendita di capi di abbigliamento. Una serie di scambi commerciali fittissimi che hanno da subito destato la curiosità dei Finanzieri sulla loro veridicità specie per quelle fatture di vendita più elevate nei loro importi, emesse dalle ditte cinesi di Fabro, composte per lo più da soggetti stranieri sfruttati e sottopagati. Il giro illecito individuato in realtà prevedeva che una delle ditte cinesi indicava sulle fatture di vendita alla società italiana un prezzo molto superiore rispetto a quello reale, che poi lasocietà italiana, reale committente del prodotto, si scaricava come costi di acquisto a riduzione del proprio utile. La Guardia di finanza di Orvieto ricostruiva così il reale giro di affari contestando fatture per operazioni inesistenti per circa 500 mila euro, ricavi in nero pari a quasi 600 mila euro, un'Ires evasa per 300 mila euro ed un'Iva dovuta di oltre 200 mila euro. Una classica filiera dei nostri tempi, dove una società italiana di fatto sfruttava il lavoro, spesso a nero, di cittadini extracomunitari, in questo caso cinesi, facendoli figurare come dipendenti di una o più società intestate a teste di legno, scaricandosi poi sulla medesima società le tasse ma anche contributi e responsabilità. Di fatto più che aumentati, i costi erano letteralmente gonfiati, al punto che i costi di acquisto dalle società cinesi risultavano addirittura superiori a quelli ai quali gli stessi capi di abbigliamento venivano poi rivenduti (come made in Italy, ovviamente) dalla società italiana verificata alle grosse case di moda. Oltre alle suddette violazioni, l'attività ispettiva ha permesso poi di accertare l'impiego di dieci lavoratori irregolari e due lavoratori completamente in nero, che si aggiungono ai settantasette lavoratori irregolari e otto in nero già contestati, nel mese di dicembre scorso, come dipendenti delle ditte cinesi. Il rappresentante legale della società sottoposta a verifica è stato deferito alla competente autorità giudiziaria per dichiarazione fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, D.Lgs.74/2000).