
Papa Francesco e i migranti: quella critica solo all'Europa mentre Erdogan li usa come arma geopolitica

La potenza dei gesti, delle parole, di un senso con cui leggere il mondo. Papa Francesco ha mostrato tutto questo nel corso del suo viaggio tra Cipro e la Grecia, che volge al termine. Ed ha avuto come tema fondante il messaggio principale del suo pontificato, la metafora dei muri. Quelli che spesso hanno caratterizzato la comunità cristiana, sì. Ma anche, ovviamente, quelli relativi all’immigrazione. Bergoglio si è recato in alcuni dei luoghi nervralgici delle crisi migratorie.
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Da Papa ha, giustamente, condannato la sofferenza di quanti si affollano nei campi profughi. Sul piano della disamina delle responsabilità, però, torna a quella vocazione comune a certe sfumature progressiste, ovvero il colpevolismo dell’Europa e dell’Occidente. Ha parlato di lager, di egoismi, ha affermato che nel Vecchio Continente qualcuno fa finta che il problema non esista. Il riferimento, ovviamente, è a chi chiede un controllo di flussi. Questo tipo di messaggio ha caratterizzato costantemente l’esperienza bergogliana, ma rischia di dare una lettura demagogica e parziale di un fenomeno complesso. Che, soprattutto a Lesbo, soffre di una dinamica politica rilevante: quella della riduzione degli immigrati ad arma “geopolitica”, a strumento di pressione. E ad interpretarla è (in questo caso, ma tuttavia non l’unico nel mondo) il leader turco Erdogan. Colui che si pone come una sorta di campione dell’islamismo sunnita alla sfida dell’Occidente. E non si è mai fatto scrupolo nell’utilizzare vite umane come merce di scambio e trattativa con l’Ue (come racconta peraltro Douglas Murray nel volume “La strana morte dell’Europa” ciò ha contribuito, per esempio, all’invasione di nocciole scadenti nel mercato comunitario”). Da “sultano” in cravatta, Erdogan ha distorto, piegato, mercificato il valore della vita.
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Francesco ha sollevato un tema universale, ma la sua chiave di lettura non lo è stata. Il suo sguardo grave, infatti, è stato esclusivamente rivolto all’Europa. La culla della cristianità in pericolo, assediata da pulsioni laiciste e disgreganti interne. Dove anche una visione totalizzante dell’accoglienza crea le condizioni per cambiare i connotati di una storia e di una società, affiancando i minareti ai campanili, insediando nelle anime delle nostre città i germi della sharia, delle donne in velo, in molti casi segregate o uccise se vogliono abbracciare la cultura della libertà. Questo, per esempio, San Giovanni Paolo II lo ha più volte sottolineato. La condanna morale di un Europa, peraltro fiaccata dal Covid, dalla crisi economica, dal continuo flagello di limitazioni a intermittenza, rischia solo di allontanare dalla Chiesa chi orgogliosamente abbraccia la fede cristiana. E non può ne deve essere stritolato nella complessità di un fenomeno che va affrontato con una risposta, non con una resa.