
La domanda del muro di Orban

Il muro di Orban si alza davanti all'onda dei migranti e dei profughi e la polizia ungherese arresta chi entra nel territorio della nazione. Dall'Europa si alza un coro di condanne contro il premier e si ritirano fuori dai cassetti i fantasmi del nazismo. Orban è un razzista che contravviene ai valori profondi dell'Europa, alla solidarietà matrice del Continente e incarna una deriva populista-nazionalista allarmante. Potremmo anche essere d'accordo, ma forse vale la pena di approfondire un poco la questione, anche perché sarebbe piuttosto illusorio restringerla al perimetro ungherese, come se non ci riguardasse, come se Orban fosse una strano e imprevedibile mostro saltato fuori per qualche congiuntura estemporanea o una cattiveria inspiegabile. Intanto, il suo percorso. Orban era un anticomunista nei tempi del regime, poi ha assunto posizioni liberali che nel tempo hanno virato verso un dirigismo forte, a cominciare dall'economia. Questa impostazione si è accompagnata a una difesa dei valori della famiglia, della tradizione, della nazione e delle radici cristiane della storia ungherese. Orban non ha esitato a gridare al "successo delle democrazie illiberali" e ha assunto atteggiamenti da leaderismo esasperato che hanno raccolto consensi (il 45% circa alle ultime elezioni). Si è smarcato dall'Europa su questioni come la pena di morte e ha trovato un cavallo di battaglia nell'emergenza dei migranti, consapevole dell'ostilità con cui più o meno una metà del paese guarda al flusso ininterrotto che si avvicina alle frontiere, deciso ad oltrepassarle. Da leader che sente di avere un appoggio popolare e che si trova di fronte a un problema che sta al centro degli umori e del sentire collettivo, ha cavalcato la situazione e ha assunto da subito una posizione di fermezza, prossima alla brutalità: no agli ingressi e chiusura dei confini. Non parole, ma fatti, e cioè arresti e un muro tirato su a presidiare i confini. Adesso lo accusano di razzismo e di deriva nazionalista. Certo, se il suo comportamento diventasse un modello, vedremmo un'Europa che regredisce al mosaico delle nazioni e delle reciproche e secolari rivalità che hanno prodotto guerre e stermini. Però, sarebbe un errore far finta di niente di fronte a Orban, di fronte alla domanda che ci rivolge. La storia dell'Ungheria è lì a ricordarci il riflesso condizionato di un Paese che fu a lungo assoggettato ai Turchi e che, pur di non cadere nel comunismo, si affidò al regime reazionario di Horthy e all'alleanza con il nazismo. La storia non è un optional. Ora l'Ungheria sta nell'Unione Europea, ma si riscopre sulla frontiera e i migranti tornano a rappresentare un fantasma che, se ha le sacrosante ragioni di chi fugge dalla guerra e dalla distruzione, viene percepito nel Paese, da una parte cospicua del Paese, come un pericolo, un rischio che minaccia l'ordine e l'identità stessa della nazione. Orban è una variabile dipendente di tutto questo e nemmeno la più oltranzista e ed estrema, perché alla sua festa c'è il Jobbik, il Movimento per l'Ungheria Migliore, che radicalizza in nome della nazione e dice no all'Europa. Più volte gli sono piovute addosso accuse di antisemitismo e nazismo. Inutile scandalizzarci. Con questo abbiamo a che fare. Il cuore nero di Budapest batte anche dalle nostre parti e l'Ungheria da questo punto di vista è un laboratorio possibile del nostro futuro, una cartina al tornasole di una possibile deriva continentale nel momento in cui i processi in corso non venissero affrontati con fermezza, organizzazione, lucidità e lungimiranza. Lungimiranza, non il piccolo cabotaggio di qualche decina di migliaia di migranti o di profughi da piazzare qua e là, ma la consapevolezza di quella che dovrebbe essere la superpolis europea di fronte a un esodo che ha ragioni profonde e diverse, come possono essere diversi quelli che se ne vanno dalla Nigeria di Boko Haram dai siriani che fuggono da Assad e dall'Isis. Orban è un campanello d'allarme e sarebbe grave non interrogarsi sul circolo vizioso che passa fra le sue decisioni e il consenso di cui gode. Guai a ridurre tutto a una contrapposizioni buonista tra l'accoglienza e l'intolleranza, tra il bene e il male che risorge. Se l'Europa ha un senso, può averlo solo nella capacità di guardare al suo passato e di superarlo proprio nel farsi sentimento comune - e politica comune - che rispettando le differenze sposta in avanti la sua missione. Non più terra di resistenze e di reticolati, ma fucina impareggiabile di una nuova convivenza, in cui i valori e la tradizione non sono il buio, ma il motore prezioso di un cammino nella luce.