
La Turchia dica da che parte sta

“Se la comunità internazionale aiuterà i curdi che combattono contro l'Isis in Siria e ne riconoscerà il diritto all'autonomia sarà possibile pacificare quelle terre da dove fuggono migliaia di profughi e fermare il grande esodo di migranti che sta investendo l'Europa”. Quasi un messaggio nella bottiglia, in questi giorni di grande tensione per l'emergenza profughi in Ungheria, Serbia e Croazia, mentre Australia, Russia e a quanto pare anche la Francia si muovono in ordine sparso contro lo stato islamico, arriva l'appello di Yilmaz Orkan, uno dei 300 membri del Congresso nazionale del Kurdistan, l'istituzione che in Belgio rappresenta tutti i partiti della diaspora di questo popolo privo di uno stato, sempre trascurato dall'occidente, l'unico a tener testa con le armi, sul terreno, ai tagliagole del califfato: “solo negli ultimi venti giorni mezzo milione di siriani sono fuggiti in Turchia dirigendosi verso l'Europa. Si aggiungono ai quasi due milioni di profughi di questi anni di guerra civile: una tragedia di fronte alla quale Ankara non interviene scaricandone il peso sulla sola Unione europea”. Storicamente discriminati nei paesi in cui sono divisi (Iran, Iraq, Siria, Turchia), i curdi difendono dai miliziani dell'Isis (che considerano alla stregua di neonazisti) “Rojava”, la striscia settentrionale della Siria al confine turco, in cui 70mila dei loro soldati (donne comprese) hanno istituito l'Autonomia democratica curda, il Kurdistan occidentale, dove convivono anche arabi, assiri, armeni, turkmeni. Sono loro che a gennaio hanno liberato Kobane, che il califfato aveva preso un anno fa: una battaglia lunga e sanguinosa, costata la vita anche a centinaia di civili, che - in un paese distrutto, dove Damasco controlla solo il 20% del territorio e dove mancano anche gli ospedali - adesso avrebbero bisogno di un corridoio umanitario dalla Turchia che, però, il regime di Erdogan nega. Ultimamente il cuore dello scontro si è spostato a ovest, a Jarabulus, sempre al confine nord: la popolazione è fuggita, è diventato il centro logistico di rifornimento di petrolio e di raccordo dei terroristi che si infiltrano dalla Turchia: “se Ankara desse l'autorizzazione alla coalizione di bombardarla e ai curdi di attaccarla da terra sarebbe l'inizio della fine per lo Stato islamico che vedrebbe a rischio, in sequenza, anche la sua capitale, Raqqa, che si trova poco più a sud lungo l'Eufrate”. I curdi, che hanno già avuto 3mila morti, sottraggono armi leggere ai miliziani dell'Isis in fuga, e allo stesso esercito siriano di Assad. “Ecco perché, oltre ad aiuti umanitari, avremmo bisogno di armamenti pesanti. Li aspettiamo dalla comunità internazionale cui chiediamo anche di fermare il sostegno turco, al di là delle dichiarazioni ufficiali, ai jihadisti. Altri paesi da smascherare nell'appoggio al califfato - attraverso fondazioni e istituzioni private - sono l'Arabia Saudita e il Qatar”. Una volta sconfitto l'Isis, obiettivo dei curdi non è l'indipendenza dalla Siria ma l'autonomia e la pacifica convivenza di tutte le etnie in un nuovo regime democratico, evidentemente senza l'ingombrante presenza del dittatore Assad che - 4 anni fa - cominciò a reprimere con le armi la primavera siriana, dando il via alla guerra civile nella quale si è poi infiltrato lo stato islamico. “La Siria è un mosaico: drusi, alawiti, sunniti, ismailiti, armeni, assiri, oltre ai curdi. Dobbiamo vivere insieme, governati da istituzioni democratiche, in una federazione che dia spazio a lingue, religioni e istituzioni locali per tutti. Se i jihadisti saranno annientati anche in Iraq, curdi e sunniti sono già d'accordo nel chiedere agli sciiti uno stato federale: ciò che vogliamo anche in Turchia. Stabilità, pace, democrazia non potranno non contagiare ancora altri paesi del Golfo. Questo segnerebbe anche la fine delle migrazioni epocali verso l'Europa e il ritorno a casa di molti dei profughi. Utopie? Tutto si tiene: aiutateci”.