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Maschere ed emozioni

Michele Cucuzza
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“Disturbo neurofisiologico che, al contrario dell'empatia, impedisce di entrare in sintonia con gli stati d'animo altrui e di riconoscere i propri”. E' così che si può definire l'alessitimia, sindrome di cui si è parlato molto questa estate. Il primo a tirarla fuori, polemicamente, è stato Beppe Grillo, accusando nel suo blog gli altri politici di essere incapaci appunto di decifrare le emozioni della gente e, quindi, di essere inadeguati a comunicare con i cittadini. Poi il termine è stato analizzato e discusso sulla carta stampata ed è stato messo in evidenza, su La Repubblica, che in un caso su tre l'origine dell'alessitimia è genetica, ma spesso c'entrano l'educazione o traumi infantili. La ricerca sulla sindrome è solo agli inizi: senza scomodare i classici della psicanalisi, pensate come si sentirà la filosofa americana Martha Nussbaum che, nel 2001, scrivendo il poderoso saggio “L'intelligenza delle emozioni”, ci spiegava come da sempre l'uomo abbia avvertito il bisogno di indagarle, farle proprie e - nei casi migliori - le abbia utilizzate mettendole a base della compassione, dei rapporti sociali, dell'amore, della letteratura: “Le emozioni come reazioni intelligenti alla percezione del valore”. 21 anni dopo eccoci a discutere di chi le emozioni forse le sente, ma non sa descriverle né a se stesso né agli altri. Agli studiosi, i neurologi, i terapeuti il compito di indagare e proporci ulteriori acquisizioni. All'osservatore non specializzato non sfugge, tuttavia, come tutti noi, soprattutto sui social media, tendiamo a tralasciare, a nascondere - almeno quando postiamo racconti e commenti - fino a separarcene la nostra vera vita emotiva. Probabilmente ci crediamo pure noi: la nostra vita apparente tende sempre alla normalità, tra i nostri cari, i luoghi dell'affetto e della comodità, i piatti gustosi ben in vista, cani e gatti di casa, un paesaggio, un po' di sport, magari balli di gruppo e pure qualche bel pensiero sull'amore e sulla vita che ci fa sentire perfetti. Una favola. Appunto. E i dispiaceri? Le inquietudini, i guai? Suvvia, siamo ottimisti, positivi (tranne quando spariamo a zero sui politici). Neanche per i sogni, gli slanci, l'immaginazione c'è posto. A poco a poco, stiamo rischiando di abituarci a lasciar cadere le emozioni, non solo nella recita delle chat, ma anche nella vita reale, convinti che non possiamo essere che 'normali' per essere reali. La maschera che indossiamo mentre digitiamo rischia di farsi sostanza. Il risultato potrebbe essere l'opposto di quello cui aspiriamo: restare in superficie, non indagare le emozioni, anche le più negative, in nome della normalità conformista, ci rende fragili, inquieti dentro anche se sordi all'esterno. Provare qualcosa, esserne turbati, “tenere pensieri” non è una debolezza. E' la nostra condizione di umani, persino una ricchezza quando sappiamo maneggiarla e come “'investirla”. Forse faremmo bene anche a comunicarlo ai nostri figli. Se va sempre tutto bene, se si sentono in dovere di essere sempre al top (davanti a noi che li amiamo così tanto e gli diamo tutto quel che possiamo, senza mai dire di no) come faranno di fronte alle emozioni quando inevitabilmente affiorano o quando avvertono l'assenza dalla loro energia profonda (la competitività con i compagni, la paura di fare cilecca con le ragazze, di non essere attraenti)? Se persino un film pensoso alla tv si scarta perché “mi rende triste” (cioè non ho difese), se ogni notizia sgradevole del tg dev'essere esorcizzata con una battuta per sdrammatizzare, per passare ad altro, quando il passato non ci interessa e il futuro ci spaventa ma non ce lo diciamo anche se non riusciamo mai ad aspettare, come meravigliarci di tanti, troppi weekend alcolici e all'extasy di giovani che, per fare cose comunissime come ballare la notte, corteggiare e farsi corteggiare, non sfigurare con gli amici, hanno bisogno di dissociarsi da se stessi, a tappe fisse, perché sennò chi ce la fa?