
Si chiama ricatto e lo firma Luigi Di Maio

A furia di stare nel Palazzo nelle posizioni più ambite - tre volte ministro in tre governi diversi tra loro - Luigi Di Maio ha imparato una delle arti più brutte della vecchia politica. Quella per cui o si fa come dice lui o non si fa niente. Se lo fa un cittadino qualunque è un ricattatore. Se lo fa un ministro è un semplice invito a non scantonare. E così anche lui si esercita. Nelle settimane che precedono la fase convulsa che porterà il Parlamento nelle votazioni per il successore di Sergio Mattarella, l’ex capo politico dei Cinque stelle ne ha sparata una gravissima: “"Se facciamo piombare nel dibattito sul Quirinale il voto anticipato e quindi mettiamo a repentaglio l'esecuzione del Pnrr e il completamento della campagna vaccinale, faccio una battuta, probabilmente il presidente della Repubblica non lo eleggeremo mai".
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È tutt’altro che una battuta, ovviamente. Perché Di Maio un paio di cose le sa già: i Cinque stelle perderanno una marea di parlamentari per i voti che se ne vanno e per i seggi che hanno voluto ridurre. Quindi, occhio che noi non garantiamo nulla, manda a dire, se non consentite ai nostri deputati e senatori di pagare per altri due anni il mutuo di casa e se non li fate arrivare al vitalizio. Il messaggio è rivolto sia a Mario Draghi che a Sergio Mattarella: sta a loro trovare la soluzione ai problemi dei Cinque stelle, mica della Repubblica italiana. Un “ragionamento” davvero sconcio, che fa a pugni con la qualità della scelta che sarà chiamato ad esprimere il Parlamento sul prossimo Capo dello Stato.
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È la nuova politica, quella che mette davanti a tutto il terrore di doversi confrontare con il popolo italiano. Le natiche degli onorevoli contano più della credibilità delle istituzioni della Repubblica. Ogni giorno Di Maio e soci dimostrano come e dove è finita la loro rivoluzione: nel pantano delle poltrone.
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