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Catania, scardinata piazza dello spaccio: nei video anche le umiliazioni del capo alle "vedette"

Christian Campigli
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Un'organizzazione militare. All'interno della quale ognuno aveva un compito preciso e dettaglio da svolgere. Per difendere e possibilmente incrementare un business che non riesce a conoscere momenti di crisi o di difficoltà.

Sgominata questa mattina da un blitz dei carabinieri del comando provinciale di Catania una banda di venticinque persone, che gestiva quotidianamente una delle più importanti piazze di spaccio del capoluogo siciliano. Il fortino si trovava nel cuore stesso del rione San Cristoforo e riusciva a portare ai malviventi introiti giornalieri di oltre diecimila euro. La cocaina e il crack venivano venduti principalmente in via Piombai.

 

 

 

I militari, coadiuvati da reparti specializzati, hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari, su richiesta della procura, che ipotizza, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere finalizzata al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti. Lo smercio di droga, è emerso dalle osservazioni dei carabinieri, avveniva principalmente nel cortile comune a abitazioni della famiglia del capo-piazza, al quale si poteva accedere soltanto da due portoni blindati. Lo spiazzo era costantemente sorvegliato da vedette, e protetto da cani di grossa taglia, oltre che da un avanzato sistema di videosorveglianza attivato per allertare gli spacciatori dall'eventuale arrivo delle forze dell'ordine. Dall'attività investigativa è emersa la partecipazione fondamentale di almeno tre donne: in particolar modo, la moglie e la cognata del capo gestivano i guadagni totali e davano gli “stipendi” mensili ai vari sottoposti.

Gli uomini in divisa sono rimasti sbigottiti quando hanno avuto modo di assistere ad una scena che fa raggelare il sangue. La moglie del boss, pur di non affidare ad altri il controllo della piazza, in più di un'occasione è stata vista spacciare col proprio figlio, un neonato di pochi mesi in braccio. La banda era gestita in modo autoritario, con a vertice un uomo, considerato il padre padrone persino della vita degli altri affiliati.

 

 

Le vedette, ovvero il gradino più basso dell'organizzazione, venivano spesso picchiate e costrette a subire angherie di ogni tipo. Un nonnismo che si spingeva fino a derisioni e autentiche umiliazioni. Il tutto per testare la fedeltà dei membri del cartello, ma anche per dimostrare l'onnipotenza del capo. Quest'ultimo era solito riprendere col proprio telefono i momenti più estremi: in un'occasione uno degli affiliati venne costretto a tuffarsi nel contenitore dell'immondizia, un'altra volta venne avvolto con del nastro isolante lungo tutto il corpo, volto compreso. Le riprese venivano poi postate su Facebook e altri social network, in un crescente delirio di onnipotenza, che non si fermava nemmeno di fronte alla naturale prudenza nel pubblicizzare virtualmente attività illegali. Un'organizzazione violenta, che non aveva scrupoli. Neanche di fronte all'innocenza di un neonato.